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![]() "OH CHITARRA ROMANA" |
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1961 (e dintorni) Roteava rapidissimo. Avrei voluto fermarlo per vedere com’era. Ma qualcosa in quel movimento mi incantava. E i giri erano parecchi, incessanti. Però a un certo punto, lo sapevo, la velocità diminuiva. Uno dei miei tre cugini alzava quella specie di braccio color avorio, in plastica rigida. Lo spingeva fino in fondo e con un clic tutto si arrestava. Il disco nero finalmente mostrava scritte di diversa grandezza nel cerchio più interno. I solchi, fitti fitti, ora si distinguevano bene. La canzone, uscita da lì quasi per magia, non c’era più. Ma niente andava perduto. Si poteva ricominciare. E spesso era G. che riportava il braccio di plastica all’esterno, appoggiava la puntina, collocata sotto, sui solchi più larghi del disco che riprendeva a girare. Le note venivano fuori senza sosta. Il salottino diventava allegro. Io guardavo in su, verso i visi sorridenti di quei nipoti verso cui mio padre nutriva particolare affetto. La camicia bianca di G, sempre elegante, appariva di un candido luminoso. Di solito erano domeniche di primavera o d’estate quelle in cui i tre ragazzi di Milano venivano a Malnate, al pianterreno della nostra casa, per loro abitazione di villeggiatura. Io ero piccola, forse non andavo ancora a scuola. Loro già giovanotti, di famiglia ricca, compravano i dischi alla moda. Sopra un antico tavolino, in un angolo, stava il giradischi. Di marca Lesa, aveva da chiuso l’aspetto di un valigiotto alto e quadrato, di colore verdino. Aperto, mostrava pochi elementi essenziali: un piatto rotondo di metallo, ricoperto da un tappetino di gomma solcato da righe concentriche, dove si appoggiavano i dischi, una manopola avorio per il volume, un’altra per selezionare i 45, i 33 o i 78 giri, e il braccio mobile. L’altoparlante, inserito nel coperchio, si intravedeva appena, nascosto da un tessuto damascato teso a coprire quasi tutta la cavità, eccezion fatta per uno spazio rettangolare che chiudendo andava ad incastrarsi sopra il braccio a riposo. I dischi erano ammucchiati sul ripiano in basso del tavolino, nelle loro buste di carta. Ascoltavo le canzoni, le imparavo a memoria, accennavo qualche movimento per accompagnare i ritmi, tutti abbastanza vivaci. Mi piaceva “Romantica” così sonora e squillante, soprattutto quando Tony Dallara diceva “tu sei romantica amica delle nuvole”. “Bambina bambina sulle labbra colorate hai il sapore dell’estate”: un altro brano dello stesso cantante. Immaginavo il mare. E ancora “24mila baci” di Celentano. Affascinante quel numero. Ma la mia preferita restava “Chitarra romana” di Connie Francis. Forse per la voce dall’accento un po’ strano che faceva vibrare le parole. Forse per le frasi in inglese che non capivo e aggiungevano del mistero. Forse perché le storie di amore malinconico mi colpivano già allora. Quella musica mi accarezzava la pelle. “Sotto un manto di stelle Roma bella mi appare, solitario il mio cuor disilluso d’amor vuol nell’ombra cantare” e “Suona suona mia chitarra, lascia piangere il mio cuore, senza casa e senza amore mi rimani solo tu… Oh chitarra romana accompagnami tu” … Lo spazio della sala si allargava. Il giradischi produceva quell’incantesimo. Ero contenta. R. mi faceva ridere dicendomi che Connie Francis in realtà era italiana e si chiamava Concetta Franconero. Io me la rappresentavo coi capelli neri, per il resto, di lei conoscevo solo la voce. Non chiedevo mai ai miei cugini questo o quel disco. Non osavo. C’erano delle pause di silenzio tra un brano e l’altro. A volte si udiva il leggero gracchiare della puntina mentre veniva appoggiata sui solchi del vinile. Apprezzavo la sorpresa, lasciavo che le canzoni arrivassero così, per caso. Divertente indovinarle dalle prime note. Dopo qualche anno il giradischi ce lo regalarono, a me e a mio fratello. Al piano di sopra lo portò mio padre, considerato il peso. I dischi ora li sceglievo io: canzoni di Morandi, “Le colline sono in fiore”… ma questa, come si dice, è un’altra storia. (racconto di Anna Maria Tettamanzi - 2012) |